Non era giusto

“Non era giusto” si rammaricava la signora Cancellieri,  ministro della Giustizia nel Governo delle larghe intese – voluto e patrocinato da re Giorgio I – in una telefonata all’amica di lunga data Gabriela Fragni, compagna di Salvatore Ligresti, per esprimerle solidarietà dopo l’arresto di costui e delle due figlie, una delle quali, Giulia, sembra avesse già iniziato una dieta dimagrante in cella.

Non era giusto cosa, signora Ministro? Si spieghi meglio, in modo che gli italiani tutti – indistintamente dal ceto sociale, dalla fede politica e dal credo religioso – che lei si vanta di rappresentare, gioiscano, condividendola, della sua grande carica di umanità. Non era giusto che giudici consci del loro dovere, liberi da vincoli di vassallaggio a tanta famiglia, avessero riservato gli onori dell’ospitalità nelle patrie galere a due signore della classe bene? Oppure – e il suo buon cuore me lo fa credere – con queste parole intendeva deplorare la rovina di 12 mila piccoli azionisti causata dal crac finanziario della Fonsai? Nel primo caso lei avrebbe dissentito dall’operato dei giudici cosa che un ministro della Giustizia con più senso dello Stato non si dovrebbe permettere; nel secondo la telefonata più che di solidarietà sarebbe stata di accusa. Ed io ci credo poco che lei telefonasse alla signora Fragni per dolersi dell’operato poco trasparente della stimata famiglia Ligresti, soprattutto in considerazione dell’amicizia ‘di lunga data’ che vi lega e lo scambio di favori reciproco che intercorre tra di voi; non ultimo il ben retribuito lavoro di suo figlio Piergiorgio che in quattordici mesi di presenza come direttore generale della Fonsai si sarebbe portato a casa la modica somma di cinque milioni di euro (circa 12 mila euro al giorno, sabato e domenica compresi, e precisamente la somma che la maggior parte dei piccoli cafoni pensionati, dopo quarant’anni di lavoro, spesso non riceve neppure in un anno).

Che lei, cercando di giustificare il suo gesto ‘umano’, abbia ricevuto solidarietà e ovazioni dalle due camere non dovrebbe trarla in inganno: pur di mantenere in vita questo Governo fantoccio e i loro scranni i nostri onorevoli farebbero di tutto; ma non pensi che tutti gli italiani siano degli allocchi. Se vuole coltivare le sue amicizie trentennali con corrotti e genti senza scrupoli, lo faccia pure, però abbia un po’ di decoro e si dimetta da ministro della Repubblica, è il minimo che le si chiede.

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Amado mio, …

Chi avesse pensato che Topo Gigio si sarebbe ritirato a riposo su una montagna di formaggio a rosicchiare i suoi caci (con 32 mila euro mensile di pensione hai voglia quanti ci se ne può comperare), avrebbe fatto male i suoi calcoli, poiché il piccolo roditore non ha saputo resistere alla chiamata lusinghiera del gerontocrate di stanza sul Colle, per nuovi incarichi e (naturalmente) nuove prebende. Ci congratuliamo coll’indefesso ometto, augurandogli tanto successo nel suo nuovo lavoro. Qui di seguito qualche accenno alla sua brillante carriera: Allievo prediletto e vice segretario del Cinghialone col compito maggiore, negli anni 80-90, di fare insabbiare leggi coinvolgenti i grandi mestatori del PSI e fare pressione su SISME e SISDE per indurli a raccogliere dossier sui magistrati di Mani Pulite (vedi Peter Gomez su Il Fatto Quotidiano del 15 c.m.), onde poterli ricattare all’occorrente. Inoltre doveva convincere testimoni scomodi come la signora Borsacchi, vedova di un dirigente socialista, di tenere la bocca chiusa di fronte ai giudici e non fare nomi. Questo modo intimidatorio si protrasse anche dopo la fuga poco dignitosa ad Hammamet dell’onorevole Craxi che favorì la sua ascesa agli allori. Ecco cosa scrive a proposito l’ex ministro del suo Governo Carlo Ripa di Meana nel suo libro ‘Sorci Verdi’: “Giuliano mi rimproverò: disse che l’azione giudiziaria di Mani Pulite – come indicavano i capi dei servizi e il capo della Polizia Vincenzo Parisi – era un pericolo per le istituzioni”. E non è tutto: in tempi più recenti il piccolo ghiottone di cacio avrebbe fatto accordi col presidente del Mps Mussari per uno scambio di favori (e già, una mano lava l’altra), e cioè l’ appoggio a questi per la scalata all’Abi contro un aiutino al suo tennis club Orbetello. “Io ti aiuto alla presidenza Abi, tu finanzi il mio torneo”. Queste o qualcosa di simile sono le parole che i due comparielli, stando al Fatto del 13 c.m. e al Corriere della Sera del 12, si sarebbero scambiate. Come si vede un curriculum di tutto rispetto per l’uomo chiamato da Napolitano a coprire il posto vacante di giudice della Consulta. Una garanzia per le istituzioni. Complimenti, Presidente, anche questa volta ha fatto una buona scelta!

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Lassù qualcuno mi ama

Tra gli undici Presidenti della Repubblica italiana, sarà senz’altro interessante una disamina di tutto l’operato dell’ultimo inquilino del Colle, vale a dire di Giorgio Napolitano, alias King George, che verrà sicuramente ricordato anche per certe sue prese di posizione (discutibili per alcuni, oculate e lungimiranti per gli altri).  Ed eccovene una selezione di quelle più importanti: l’ introduzione della bissata (rielezione) dell’alta carica presidenziale, mai azzardata prima d’ora; l’instancabile vezzo di bacchettare i magistrati ad ogni occasione, cioè continuamente; il suo magistrale cerchiobottismo degno del migliore bottaio; la sua debolezza per i bassotti, con preferenza per quelli dai radi peli catramati. Tralasciando altri suoi atti costituzionali inerenti al mandato, ci soffermeremo sulla tenace protezione accordata a colui che maggiormente gode delle sue paterne premure, e cioè al piccolo (si fa per dire) ometto di Arcore, sul quale ha steso ripetutamente la sua ala protettrice, vigilando sull’incolumità e studiandosi di evitargli ogni dispiacere, tra cui quello della revoca per indegnità dell’onorificenza di cavaliere, come già accaduto nei confronti di Calisto Tanzi, di certo meno corrotto del suo pupillo. Ma al fine di un migliore chiarimento per il lettore è necessario ritornare indietro al 2011 quando l’esimio cavaliere, dopo l’abbandono dell’on. Fini, era dato per spacciato e re Giorgio fece slittare di un mese il voto sulla sfiducia per dare tempo al piccolo (si fa ancora per dire) caimano d’intrallazzare i voti necessari alla salvezza. La seconda stampella al salvataggio consistette nel geniale espediente del Governo Monti che salvò dal tracollo le aziende del grande statista arcoriano a spese degli italiani, precipitati sempre più nella miseria. Infine, essendo alcuni magistrati coraggiosi riusciti a portare a termine uno dei tanti processi per evasione fiscale commessa dell’irreprensibile cavaliere, e voilà: prontamente re Giorgio a correre di nuovo in suo aiuto con una difesa in cui gli vengono riconosciuti i grandi meriti del suo ventennale (mal)Governo. Ecco a voi i passi migliori: della presidenziale difesa: ” … in questo momento è legittimo che si manifestino riserve e dissensi rispetto alle conclusioni cui è giunta la Corte di Cassazione nella scia delle valutazioni già prevalse nei due precedenti gradi di giudizio; ed è comprensibile che emergano – soprattutto nell’area del PDL – turbamenti e preoccupazioni per la condanna ad una pena definitiva di personalità che ha guidato il Governo (fatto peraltro già accaduto in un lontano passato) e che è per di più rimasto leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza”. Quanto calore in questa viscerale difesa! Ma ve lo figurate, se dopo la condanna di Al Capone, il Presidente degli Stati Uniti d’America avesse elogiato l’evasore italoamericano riconoscendogli grandi meriti per aver contribuito a tenere presente clandestinamente il consumo degli alcolici? E se inoltre gli avesse lasciato intendere di essere propenso per una grazia riparatrice? Povero Al Capone che ha avuto la disgrazia di nascere in uno Stato barbaro senza alcuna garanzia per audaci delinquenti! Ma non è la prima volta che il nostro Presidente si erge a difesa dei galantuomini. Già nel 1956 un giovane comunista, destinato ad una grande carriera, così si esprimeva in difesa di un compagno gentiluomo: “… l’intervento sovietico ha contribuito, oltre ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione a salvare la pace nel mondo”. A quando la grazia all’esimio cavaliere, Signor Presedente?

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Vite parallele

In mancanza ai giorni nostri di un Plutarco, artefice di un parallelo con illustri personaggi antichi e moderni, e non essendo ancora apparso un agiografo degno di tanto lavoro, lo spelacchiato ometto di Arcore, richiamandosi al vecchio adagio: chi fa da sé fa per tre, ha ben pensato d’incensarsi da solo. Ma, a differenza di Plutarco che nel confronto abbinava un elléno illustre ad un altrettanto illustre romano, il nostro gagliardo cavaliere – come in quei film di cappa e spada, dove un valoroso eroe sconfigge un’intera masnada – ha l’audacia di cimentarsi in un confronto con tutti i grandi della terra: Alessandro Magno, Giulio Cesare, Gesù Cristo. A questo punto però si ferma assalito da un dubbio: sarà più rilevante un confronto con Gesù oppure con l’idolo della folla giustizialista Barabba? Alla fine si decide per un parallelo con quest’utimo convinto che ne rispecchi meglio le comuni affinità. Compiaciuto della decisione, continua la ricerca del confronto con altri uomini celebri ritenuti all’altezza del suo valore: Napoleone, Mussolini, Gheddafi. Nuovo arresto, nuovo dubbio: infatti questo inclito condottiero dalla pistola d’oro è stato spodestato a furor di popolo con una fine che sarebbe indegna per un cavaliere della Repubblica italiana. Dopo aver passato in rassegna tutti i grandi del passato degni di stargli a petto, il Nostro, come di consueto, arriva davanti lo specchio per una conferma del suo indiscusso valore. Come la matrigna di Biancaneve, anche lui interroga lo specchio magico che si è fatto installare sulla parete, e che ha il dono d’ingrandirlo di tre stature tanto da farlo sembrare un gigante. Incomincia le frenetiche domande: “Specchio, specchio delle mie brame, chi è il più grande del reame?” Di volta in volta, da dietro la cornice si ode la voce del fedele segugio Alfano, dell’idolatra Biondi, delle svenevoli Carfagna e Biancofiore, nonché di altri devoti leccapiedi che rispondono: “Tu, mio signore”; “tu, delizia dell’anima mia”; “tu, mio bene” e così via. Per una civettuola curiosità, gli fa ancora una maliziosa domanda aspettando gongolante di sentire il nome di qualche esecrabile nemico: “Specchio, specchio delle mie brame, chi è il più corrotto del reame?” Attende con ansia di conoscere il malfattore; ma la voce dietro lo specchio, non più di un suo fidato bensì quella del giudice Esposito, gli risponde: “Tu! tu sei il più corrotto, il più evasore e il più ladro”. Mortificato e incredulo dell’accusa infamante il Nostro si allontana. Ma ecco una nuova schiarita all’orizzonte. Finalmente agiografi veri riprendono il confronto procurandogli nuova gioia. Il primo, un certo Paolo Guzzanti, tira fuori dalla tomba il grande martire del fascismo Antonio Gramsci e, incosciente del paradosso, ci fa sapere che anche lui, il nanetto, sta subendo le stesse persecuzioni. Peccato che nel carcere penale di Turi ancora non ce l’hanno rinchiuso. Infelice parallelo! Ve lo figurereste un confronto tra l’imbianchino che vi ha messo a posto l’appartamento e il grande Michelangelo?, tra il cantastorie siciliano e Giuseppe Verdi?, oppure tra il magliaro imbonitore (sic!) ed Ermenegildo Zegna, tanto per fare qualche esempio? Segue l’altro grande agiografo Luigi Amiconi che, più modesto, lo paragona al Che; confronto anche questa volta bene azzeccato. Infine un anonimo agiografo ne fa il parallelo con Carlo Magno, ma non sappiamo se si riferisce alla statura, nel qual caso il Nostro soccomberebbe per la mancanza di qualche centimetro essendo, come si sa, Carlo Magno alto più di un metro e novanta, e senza specchio d’ingrandimento e senza tacchi doppi. Un arguto commentatore ha chiosato: “Ma non sarebbe più indicato il confronto con i parenti di Carlo Magno, Pipino il Breve e Carlo il Calvo?” A voi la risposta.

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Pasqualina

Spesso sulle pagine di un quotidiano, come per dare una giustificazione logica ad un delitto, si legge: il caso volle che la persona si trovasse nel posto sbagliato al tempo sbagliato. Anche la povera Pasqualina si era trovata per sua sfortuna nel luogo sbagliato al tempo sbagliato; solo che il luogo era la sua casa e il tempo una bellissima mattina del mese di maggio, quando Pasqualina, dopo ave spedito il marito al lavoro e i figli a scuola, tutta intenta alle sue faccende domestiche, si vide piombare davanti due mastini in grigioverde appartenenti al branco dei duecento carabinieri e poliziotti che l’onorevole Scelba, grande cervellone pensante e Ministro degli Interni nel Governo De Gasperi, aveva fatto sguinzagliare nelle campagne per scovare ed ammanettare, dopo una buona dose di bastonate, i rivoltosi della cosiddetta “Repubblica di Caulonia”. Tra i ricercati di maggiore rilevanza uno dei luogotenenti del capo rivolta, un certo Fioravanti Cirillo, nel cui curriculum della carriera delinquenziale risultavano, strano ma vero, soltanto alcuni anni di confino inflittigli, in nome e per conto del regime fascista, dal giudice su parere del signor Podestà che era anche il federale del circondario, il quale per esaudire il desiderio della moglie di costui – interessata ad aver campo e letto libero insieme all’amante – si era impegnato di toglierglielo dai piedi mandandolo a fare vacanze a spese dello Stato nell’isola di Favgnana.

Le piombarono in casa, come già detto, alle nove del mattino dandole il buon giorno con una scarica di frustate, calci e pugni, chiedendole di svelargli il rifugio del pericoloso bandito Cirillo, che putacaso era cugino del marito, ma che lei conosceva appena di nome e che forse non aveva mai visto di persona. Invano le preghiere della povera disgraziata di lasciarla perché non ne sapeva nulla; sempre giù botte e insulti. Ma il peggio per lei doveva ancora arrivare. Dopo essersi stancati di massacrarla di legnate, decisero di passare ad un nuovo divertimento: la fecero spogliare come sua madre l’aveva fatta, accompagnando lo spogliarello sempre a suon di botte e facendole i più volgari apprezzamenti, come: “Sei una cagna; no, sei peggio di una cagna, sei una scrofa; guardati allo specchio per vedere quanto sei buffa”, e così via.

Quando si furono stancati di picchiare e di umiliarla, le legarono una corda al collo, come fosse un cane, intimandole: “Adesso ci accompagnerai al rifugio del cuginetto, altrimenti questa è la tua ultima giornata di vita”. Uscirono trascinandosela dietro come un cane al guinzaglio e senza alcun indumento addosso che le coprisse le parti intime, e, naturalmente, senza smettere di picchiarla. La portarono in giro, chiedendo ripetutamente di indicare loro il rifugio del cugino che lei certamente doveva conoscere, finché arrivarono sul greto della fiumara. La Pasqualina era diventata un automa; aveva perso la memoria ed era diventata insensibile anche alle busse; faceva tutto quello che le chiedevano. Arrivati alla fiumara la fecero adagiare su un grosso sasso e si allontanarono di pochi passi; poi cominciarono a parlottare spianandole i moschetti. “Falla fuori tu che sei più bravo a mirare al cuore”. “No, sei più bravo tu”. “Allora facciamo la conta a chi deve farla fuori”. Fecero la conta: “Tocca a te, spara!” Parte un colpo, ma in aria. Pasqualina credette di essere stata colpita; svenne e cadde in una pozza d’acqua. Per fortuna la pozza non era profonda altrimenti sarebbe annegata. Si riprese e si accorse che i due aguzzini se n’erano andati. Piano piano e a gran fatica dopo un paio d’ore arrivò a casa. Per mesi finché visse si svegliava la notte di soprassalto terrorizzata e gridando. Povera Pasqualina quanto dovette soffrire per il resto della sua vita.

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Un giudice a Berlino

Si racconta che un contadino prussiano, ritenendo di aver subito un’ingiustizia da Federico II, abbia esclamato: “Ci sarà un giudice a Berlino!”, lasciando intendere la sua piena fiducia nella giustizia anche nei confronti del Monarca.

Questo aneddoto è la dimostrazione di quanto fosse alto il senso della giustizia presso quel popolo. Quasi quanto lo è da noi. Infatti si deve al grande senso di giustizia e responsabilità morale se in Italia certi processi anziché celebrarli i giudici li lasciano cadere in prescrizione, secondo il motto: meglio un delinquente fuori che un innocente dentro. Poi si sa, i galantuomini sono sempre innocenti; ecco perché trovare un giudice disposto ad inquisire un uomo perbene è come andare in cerca della proverbiale mosca bianca. Possiamo pertanto affermare, senza téma di smentita, che lungaggini e prescrizioni da noi non sono mai dovute a soggezione reverenziale bensì al grande rispetto che si ha per la persona umana: gli italiani, si sa, sono garantisti per eccellenza.

Ma per ritornare a Berlino; non sappiamo se anche là i fedeli sudditi di Federico II, guidati dalle Santanchè e dalle Carfagna in abbigliamento teutonico, si fossero radunati davanti al Tribunale per schiamazzare in favore dell’illustre inquisito (le cronache non ne fanno menzione), né se il Monarca per addomesticare la sentenza sia ricorso a qualche sotterfugio, quale la mazzetta sottobanco o il ricatto; però conoscendo lo scrupoloso senso del dovere dei crucchi ne dubitiamo.

E’ da vent’anni che gli italiani sospirano: “Prima o poi ci sarà un giudice anche a Roma, che incurante del fango dei giornali del padrone e delle camere appostate a riprender il colore dei suoi calzini e delle mutande, saprà mettere fine allo spudorato grido d’innocenza che, con clownesca bravura, ci viene somministrato in tutte le salse e da tutte le frequenze televisive, pubbliche e private, dall’imbonitore statista di Arcore; e ciò malgrado le prove e l’evidenza dei fatti lo inchiodino nel suo comportamento delinquenziale. Ne volete qualcuna? Eccovela: Gaetano Pecorella ex avvocato del fu cavaliere, che lo ha lasciato per la nausea di fronte a tanta spregiudicatezza, in un’intervista rilasciata ad un giornale così conclude: “La storia della nipote di Mubarak? Sembrava una battuta alla Totò, un pasticcio all’italiana, facilmente verificabile, tra l’altro nella sua grossolanità”; l’avvocato inglese Mills, artefice delle sue offshore nei paradisi fiscali: “A Berlusconi ho fatto risparmiare tanti guai con la finanza italiana”; e dulcis in fundo, dalle motivazioni della condanna in Cassazione: “Va considerata la particolare capacità a delinquere dimostrata nell’esecuzione del disegno delittuoso”. E se ne potrebbero aggiungere altre, ma per farsene un’idea basta così.

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I superiori

Dovevo rientrare a Locri per la frequenza delle lezioni al liceo classico Tommaso Gullì. A quell’epoca la possibilità di frequentare le classi superiori dopo aver, col diploma di quinta elementare, terminato il primo ciclo d’istruzione dell’obbligo, era quella di iscriversi ad una scuola superiore o a Catanzaro o a Locri. Essendo la cittadina di Locri più vicina al mio luogo di abitazione, avevo optato per quest’ultima. A causa della guerra c’erano state fino ad allora poche possibilità di completare uno studio regolare, per cui alla ripresa della normale attività scolastica non era infrequente incontrare studenti nelle prime classi del liceo o delle magistrali che già avessero raggiunto l’età di diciotto diciannove o vent’anni, me compreso. Io poi, oltre alle succitate difficoltà per il conflitto bellico, ne avevo avute altre per così dire di carattere economico. Con grande disagio e metodi di apprendimento non del tutto ortodossi ero riuscito a raffazzonare alla meglio una preparazione e presentarmi agli esami di licenza ginnasiale; e avendoli superati m’iscrissi al primo liceo classico, frequentandolo per tre o quattro mesi; dopo di che dovetti interrompere per mancanza di mezzi pecuniari, e me ne andai a fare il soldato pur avendo potuto ottenere l’esonero. Il venerdì sera di ogni due o tre settimane tornavo a casa per fare provviste (fagioli, patate, pane, formaggio ecc.), e la domenica di primo pomeriggio ripartivo per essere presente alle lezioni del lunedì e dei giorni successivi. Quella domenica mi ero fermato a Gioiosa Jonica dovendo sbrigare colà non so più quale faccenda, contando di ripartire col treno delle otto di sera (minuto più, minuto meno). Non ricordo di preciso la causa, fatto sta che persi il treno, e fino all’indomani mattina alle cinque non ne transitavano altri. Non avevo tanti soldi per andare all’albergo e decisi di aspettare l’altro treno nella sala d’aspetto della stazione, come facevano tanti e come io stesso avevo fatto altre volte. Mi ci recai e presi posto su una delle due panchine a disposizione dei passeggeri ancora in parte libera; l’altra era occupata per intero da un uomo che vi s’era sdraiato, e, dal suono che si diffondeva nell’aria, era facile capire che stava dormendo saporitamente. Sulla panchina in cui presi posto io stava seduto un altro passeggero, che forse non aveva fatto in tempo ad occuparla tutta per la mia sopravvenuta o forse per paura di qualche brutta sorpresa durante il sonno (mi accorsi dopo, malgrado la fioca luce, diffusa da una lampada del soffitto, che era una giovane donna). Rimanemmo ad una certa distanza l’uno dall’altra in silenzio e forse rimuginando ognuno qualcosa. Verso la mezzanotte entrarono due uomini e, dall’uniforme indossata, mi accorsi che erano due carabinieri. Si avvicinarono alla panchina occupata da me e dalla giovane donna e, senza tanti complimenti: “Avete i biglietti?” chiesero. Al che esibimmo sia la donna che io i nostri biglietti. Li verificarono e ci li restituirono senza aggiungere parola; poi andarono verso l’altra panchina, svegliando bruscamente l’occupante e facendo la stessa richiesta fatta a noi. L’altro ne era sprovvisto per il fatto che non doveva partire ma erasi rifugiato per passare la notte e ripararsi dal freddo non avendo altro luogo dove andare. “Cosa fai qui se non devi partire?” lo apostrofarono minacciosi. Il poveretto tutto insonnolito si era messo a sedere e balbettando cercò di dire che non aveva altro posto dove andare e s’era rifugiato in stazione perché fuori faceva un freddo cane, essendo nel mese di dicembre. Cercò di spiegare tutto questo rimanendo seduto. Ma quelli più minacciosi a ribadire che in sala poteva stare solo chi era provvisto di biglietto del treno. L’uomo voleva aggiungere ancora qualcosa, ma quelli lo interruppero bruscamente intimando: “Alzati e mettiti sull’attenti quando parli con i tuoi superiori”. Il malcapitato si alzò in piedi, ma quelli non ancora contenti incalzarono: “Sull’attenti, idiota! Abbiamo detto sull’attenti, non hai capito?”

L’uomo cercò, goffamente e tremando per la paura, di drizzarsi, ma si vedeva che non ce la faceva più a stare in quella posizione. A me bolliva il sangue per quell’indecente spettacolo e sarei voluto intervenire, ma memore di quanto era successo qualche mese prima a Caulonia e nei paesi limitrofi dove – in seguito alla rivolta del popolo contro gli eterni soprusi dei signori locali, conosciuta come ‘Repubblica di Caulonia’ – circa duecento carabinieri e poliziotti disponendo di carta bianca avevano dato sfogo ai loro più bestiali istinti, massacrando, torturando, umiliando in tutti i modi uomini, donne e bambini; memore, dicevo, di quanto era accaduto altrove e intuendo la limitata intelligenza dei due “superiori” mi stetti zitto.

Dopo averlo angariato per un bel po’, intimandogli di seguirli, i due ‘superiori’ uscirono portandoselo via e pronunciando queste parole: “Adesso verrai con noi in caserma dove ti riscalderemo per bene a suon di nerbate, così capirai che nella sala d’aspetto possono stare coloro che sono provvisti di un biglietto valido del treno”. Non so se i due ‘superiori’ mantennero la promessa o lo avessero detto per uno stupido esibizionismo di spavalda autorità, ma considerando i loro modi gentili, sarei propenso a riconoscergli anche questi meriti. Dopo che se n’erano andati, un po’ disturbato dell’accaduto, riflettevo su quanto l’ignoranza in uniforme possa essere arrogante, insolente e pericolosa.

Spesso questo brutto ricordo, anche a distanza di tanto tempo, mi affiora ancora nitido alla memoria.

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Coraggio e pudore

Il pudore è come il coraggio: “Uno (se non ce l’ha) non se lo può dare” direbbe ancora don Abbondio.

Naturalmente, come per tutte le cose, c’è chi di questo requisito morale ne fa un culto e chi dal pudore non si è mai lasciato contagiare. Questi ultimi, rappresentanti di una tutt’altro che rara specie, si possono incontrare dappertutto, anche se i migliori campioni, di preferenza, amano bivaccare nelle aule del Parlamento, dove giocano a fare gli statisti, sfornando a bizzeffe leggi e leggine spesso miranti a tutelare gli interessi di casta e degli amici. Ma la mancanza assoluta di pudore si ha (udite! udite!) quando per un distorto senso del potere, che potremmo definire sindrome di Marchese del Grillo (io sono io, e voi altri non siete un c…zo) si servono della macchina blu e della scorta per accompagnare i figli a scuola, per andare a fare la spesa al supermercato, per portare a spasso nel parco il proprio cane e per far scorrazzare le ninfette del capo. Tutto questo in barba al popolo bue che paga; mentre Giove tonante dal Colle non ha nulla da obiettare. Che squallore e che differenza dai colleghi scandinavi, che si recano in Parlamento in bicicletta e senza alcuna scorta! Purtroppo non sono i soli. Qui di seguito andremo insieme a conoscerne altri tra i più importanti e che non ci risulta abbiano molta dimestichezza col pudore: i cosiddetti pezzi da novanta (chiediamo venia alla mafia per il termine), a cominciare da quelli che durante l’invasione dei carri armati sovietici in Ungheria nel 1956, elogiavano l’operato del compagno Crusciev e che ancora oggi, dopo quasi sessant’anni, non hanno trovato il tempo e il coraggio civile e morale di fare mea culpa, ammettendo, sia pure con ritardo, il grave errore di gioventù. A questi vanno aggiunti coloro che per calcolo d’interesse, per connivenza o per sudditanza alla mafia, se ne servirono per far tacere chi gli dava fastidio: giudici, politici, testimoni scomodi e chi ancora poteva essere loro d’intralcio. Tra le vittime prescelte eccone alcune: i giudici Falcone e Borsellino, i sindacalisti Pio La Torre e Peppino Impastato, l’onorevole Moro, e tanti altri che uno Stato fantoccio non ha saputo né proteggere né vendicare. La grossa favola che l’on. Moro non sia stato salvato perché non si voleva scendere a patti con le Brigate Rosse è semplicemente puerile e non fa onore alla classe politica dell’epoca. Infatti quando, qualche tempo dopo, si è trattato di salvare la pelle all’onorevole Cirillo non si è disdegnato di intavolare trattative anche con la camorra e chiedere il suo aiuto. E che dire di quella cricca di arrampicatori, che dopo tangentopoli e il vergognoso tracollo del Paese, con la complicità di politici corrotti e sodali mafiosi, ne approfittavano per calpestare impunemente le leggi dello Stato, per rubare e per fare scempio del pubblico demanio. Ma veniamo ai giorni nostri. “Mai un governo con Berlusconi”, latravano rabbiosamente i capoccioni del PD, quando si sono accorti di non avere la maggioranza per formare un Governo proprio, mentre Grillo con le dita sul naso gli suonava il piffero; “mai un Governo con il PDl: piuttosto affronteremo nuove lezioni”. E’ bastata un’ingiunzione arrivata dal Colle per calarsi le braghe e richiamare tutto il gregge all’obbedienza. Ma il bello doveva ancora arrivare, e non si è fatto attendere molto. Cominciamo col brutto pasticciaccio della rielezione sugli scranni del Colle di colui che sarebbe dovuto andare ad accudire i nipotini, e invece sembrerebbe non vedesse l’ora per la riconferma ad un nuovo settennato, impartendo subito dopo per riconoscenza una dura lezione al signore di Bettole che vedeva svanire il suo lungamente accarezzato sogno di gloria. Tra i tanti libri scritti dal versatile Montanelli, uno porta il titolo “L’Italia dei secoli bui”. Si riferisce ad un periodo squallido del nostro passato; ma che calzerebbe a pennello all’Italia dei giorni nostri, caduta ancora più in basso. Le figuracce che da un ventennio si vanno collezionando non trovano riscontro in nessun altro periodo. Eccone alcune che saranno vergognosamente tramandate ai posteri dalla Storia: 1. La prova di forza Italia-India, con da una parte il braccio anchilosato dell’italico campione e dall’altra il braccio nerboruto del campione indiano. Risultato: figura barbina per l’Italia che si è vista costretta a rimandare in India i due fucilieri accusati di omicidio per essere sottoposti al processo dalla magistratura di quel paese, con tante scuse. 2. Assalto al Tribunale di Milano da ninfe, passionarie, lacchè, baciapile e così via per influenzare l’esito dei processi del satrapo di Arcore. 3. Il più grave di tutti: ricatto vergognoso del dittatore kazako per farsi consegnare la moglie e la figlioletta del suo oppositore ed acerrimo nemico; ma Parigi val bene una messa: quanto può contare la vita di una donna e di una bambina a fronte degli interessi e degli intrallazzi tra i due paesi e alla grande amicizia tra i due compari di merende che ne tirano le fila? Per quest’ultimo episodio c’è uno scaricabarile tra i poco credibili ministri dell’Interno e degli Esteri, pronti ad addossare la colpa di quanto accaduto ai loro subalterni, costretti alle dimissioni per salvare la faccia ai loro datori di lavoro. Da sottolineare la calorosa (leggi: spudorata) difesa di Letta minore e da tutto il PD nei confronti del ministro Alfano, che – in combutta e sembra perfetta armonia coll’ambasciatore kazaco, si sarebbe adoperato mettendo a disposizione un nutrito numero di poliziotti armati di tutto punto, per catturare e fare espellere le due donne criminali – supera ogni limite del senso del pudore, anche se, come si presume il salvataggio è frutto del ricatto. 4. La sospensione dei lavori parlamentari per un giorno per accontentare, indovinate chi? E penso che per un giudizio sommario sui nostri rappresentanti parlamentari e sugli altri burattinai del Paese potrebbe bastare. Resta però il desiderio impellente di una domanda; ma era solo un desiderio, e tale rimane!

… Sentivo vergogna di essere italiano (C. Malaparte: La pelle).

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Grandi errori, piccoli errori

Si dice, e forse si pensa pure, che i maggiori errori gli uomini li abbiano sempre commessi in gioventù, vuoi per eccesso di entusiasmo, vuoi per mancanza di esperienza; ma se si dà uno sguardo alla storia, anche a quella più recente, ci si accorge che gli errori più devastanti sono quelli commessi quando la giovinezza è un lontano ricordo e all’entusiasmo è subentrata la quiete della maturità. Qualche esempio: Quando l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe (Ciccopeppe per gl’italiani) accese la miccia della polveriera europea, dichiarando guerra alla Serbia, era oltre gli ottant’anni di età; e quando il presidente tedesco Hindenburg favorì l’accesso al potere di Adolf Hitler, che tanti lutti doveva causare di lì a poco al mondo intero, non era meno matusa dell’imperatore d’Austria. Ciò premesso, vogliamo dare uno sguardo alle vicende attuali di casa nostra, troppo presto ancora per un annovero nel grande libro della Storia? Nell’aprile 2013 Giorgio Napolitano viene (briga per essere?) rieletto per la seconda volta Presidente della Repubblica Italiana che di anni, se non vado errato, ne ha ben ottant’otto. Con la sua riconferma parte subito l’inciucio di cui i fili, facenti capo ai burattini, vengono azionati dal cavaliere di Arcore il quale vede in esso un’ancora di salvezza ai suoi numerosi processi di imminente scadenza. Il primo a farne le spese e a trarne le conseguenze è stato colui che, bene o male, aveva ottenuto dalle urne una maggioranza per formare il nuovo Governo. Ma l’uomo di Bettole aveva fatto male i suoi calcoli: il grande vegliardo gli negava l’incarico di presentarsi alle Camere per ottenere la fiducia, avendo già in mente un Governo dalle larghe intese tra PDL e PD e lasciando a bocca asciutta il movimento di Beppe Grillo. In altre parole, meglio un inciucio ben riuscito anziché far correre rischi ai detentori del ventennale potere. E quando per il capo del PDL incominciava la resa dei conti con le cosiddette toghe rosse, ecco (San) Giorgio salvatore correre in suo aiuto con un lusinghiero (sic!) invito al Colle per concertare in comune le strategie da seguire. Cosicché invece di un ordine perentorio di levarsi dai piedi, come ci si sarebbe aspettato da un Presidente super partes, una paterna accoglienza da figliol prodigo. E chissà che tra le altre effusioni non gli abbia anche assicurato uno scranno a vita nel Senato della Repubblica! La Storia giudicherà se sarà stato un grave errore o un lungimirante beneficio per il Paese.

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Avvocato sinonimo di …

Quando, esaurito tutto il repertorio, non sapete più come offendere un individuo, chiamatelo avvocato. L’originale e, speriamo, valido consiglio non è di mio conio, bensì di un mio vecchio professore, il quale sosteneva di averlo appreso da un suo amico, profondo conoscitore della mala genia degli azzeccagarbugli. Spesso, insieme al ricordo del professore, mi torna in mente questo curioso suggerimento e nello stesso tempo il dubbio sulla sua validità per mettere un avversario k.o. La dimostrazione però che la qualifica professionale talvolta può degenerare in sinonimo di ingiuria l’ho avuta qualche sera fa da alcune rivelazioni fatte dall’avvocato Taormina ad un cronista della Zanzara Radio 24. Fra le graziose confidenze, eccone alcune che confermano ampiamente la bontà di questo titolo come insulto: “Qual è il più grande criminale che ho difeso? Un parlamentare democristiano della Prima Repubblica”. E alla domanda se ancora vivo, la risposta: “E’ ancora vivo ed era un grande criminale (ma va!), ed io l’ho fatto assolvere. Non dico chi è, altrimenti vado in galera. Vi assicuro che era un criminale e lo sapevo benissimo. Ora non è più un parlamentare … Sono contento che sia stato assolto, perché quando posso fottere i giudici sono tranquillo”. Evviva l’etica deontologica! Quanto apparirebbero forse meno spudorate queste affermazioni se fatte dall’avvocato incaricato d’ufficio a difendere il povero “vu cumprà ?” condannato qualche tempo fa ad alcuni anni di reclusione per il mancato pagamento delle multe accumulate per occupazione di suolo pubblico! Ma il grande luminare probabilmente s’è ben guardato di aprire bocca. A chi può interessare la sorte di un povero disgraziato e di tante piccole bocche da sfamare! Non molto difformi delle vanterie dell’avvocato Taormina potrebbero essere quelle di Ghedini (alias Ma-va-la-va-là) il quale in futuro potrebbe dire con orgoglio: “Ho fottuto la Boccassini facendo assolvere Berlusconi da tutte le accuse più strambe, soprattutto la grande panzana di Ruby nipote di Mubarak. Quanto sono ingenui questi giudici che si bevono tutte le cazzate delle nostre difese.” Per fortuna che ci sono ancora grandi avvocati con la a maiuscola che, come un’oasi nel deserto, riscattano questa categoria di professionisti alla Taormini.

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