Dovevo rientrare a Locri per la frequenza delle lezioni al liceo classico Tommaso Gullì. A quell’epoca la possibilità di frequentare le classi superiori dopo aver, col diploma di quinta elementare, terminato il primo ciclo d’istruzione dell’obbligo, era quella di iscriversi ad una scuola superiore o a Catanzaro o a Locri. Essendo la cittadina di Locri più vicina al mio luogo di abitazione, avevo optato per quest’ultima. A causa della guerra c’erano state fino ad allora poche possibilità di completare uno studio regolare, per cui alla ripresa della normale attività scolastica non era infrequente incontrare studenti nelle prime classi del liceo o delle magistrali che già avessero raggiunto l’età di diciotto diciannove o vent’anni, me compreso. Io poi, oltre alle succitate difficoltà per il conflitto bellico, ne avevo avute altre per così dire di carattere economico. Con grande disagio e metodi di apprendimento non del tutto ortodossi ero riuscito a raffazzonare alla meglio una preparazione e presentarmi agli esami di licenza ginnasiale; e avendoli superati m’iscrissi al primo liceo classico, frequentandolo per tre o quattro mesi; dopo di che dovetti interrompere per mancanza di mezzi pecuniari, e me ne andai a fare il soldato pur avendo potuto ottenere l’esonero. Il venerdì sera di ogni due o tre settimane tornavo a casa per fare provviste (fagioli, patate, pane, formaggio ecc.), e la domenica di primo pomeriggio ripartivo per essere presente alle lezioni del lunedì e dei giorni successivi. Quella domenica mi ero fermato a Gioiosa Jonica dovendo sbrigare colà non so più quale faccenda, contando di ripartire col treno delle otto di sera (minuto più, minuto meno). Non ricordo di preciso la causa, fatto sta che persi il treno, e fino all’indomani mattina alle cinque non ne transitavano altri. Non avevo tanti soldi per andare all’albergo e decisi di aspettare l’altro treno nella sala d’aspetto della stazione, come facevano tanti e come io stesso avevo fatto altre volte. Mi ci recai e presi posto su una delle due panchine a disposizione dei passeggeri ancora in parte libera; l’altra era occupata per intero da un uomo che vi s’era sdraiato, e, dal suono che si diffondeva nell’aria, era facile capire che stava dormendo saporitamente. Sulla panchina in cui presi posto io stava seduto un altro passeggero, che forse non aveva fatto in tempo ad occuparla tutta per la mia sopravvenuta o forse per paura di qualche brutta sorpresa durante il sonno (mi accorsi dopo, malgrado la fioca luce, diffusa da una lampada del soffitto, che era una giovane donna). Rimanemmo ad una certa distanza l’uno dall’altra in silenzio e forse rimuginando ognuno qualcosa. Verso la mezzanotte entrarono due uomini e, dall’uniforme indossata, mi accorsi che erano due carabinieri. Si avvicinarono alla panchina occupata da me e dalla giovane donna e, senza tanti complimenti: “Avete i biglietti?” chiesero. Al che esibimmo sia la donna che io i nostri biglietti. Li verificarono e ci li restituirono senza aggiungere parola; poi andarono verso l’altra panchina, svegliando bruscamente l’occupante e facendo la stessa richiesta fatta a noi. L’altro ne era sprovvisto per il fatto che non doveva partire ma erasi rifugiato per passare la notte e ripararsi dal freddo non avendo altro luogo dove andare. “Cosa fai qui se non devi partire?” lo apostrofarono minacciosi. Il poveretto tutto insonnolito si era messo a sedere e balbettando cercò di dire che non aveva altro posto dove andare e s’era rifugiato in stazione perché fuori faceva un freddo cane, essendo nel mese di dicembre. Cercò di spiegare tutto questo rimanendo seduto. Ma quelli più minacciosi a ribadire che in sala poteva stare solo chi era provvisto di biglietto del treno. L’uomo voleva aggiungere ancora qualcosa, ma quelli lo interruppero bruscamente intimando: “Alzati e mettiti sull’attenti quando parli con i tuoi superiori”. Il malcapitato si alzò in piedi, ma quelli non ancora contenti incalzarono: “Sull’attenti, idiota! Abbiamo detto sull’attenti, non hai capito?”
L’uomo cercò, goffamente e tremando per la paura, di drizzarsi, ma si vedeva che non ce la faceva più a stare in quella posizione. A me bolliva il sangue per quell’indecente spettacolo e sarei voluto intervenire, ma memore di quanto era successo qualche mese prima a Caulonia e nei paesi limitrofi dove – in seguito alla rivolta del popolo contro gli eterni soprusi dei signori locali, conosciuta come ‘Repubblica di Caulonia’ – circa duecento carabinieri e poliziotti disponendo di carta bianca avevano dato sfogo ai loro più bestiali istinti, massacrando, torturando, umiliando in tutti i modi uomini, donne e bambini; memore, dicevo, di quanto era accaduto altrove e intuendo la limitata intelligenza dei due “superiori” mi stetti zitto.
Dopo averlo angariato per un bel po’, intimandogli di seguirli, i due ‘superiori’ uscirono portandoselo via e pronunciando queste parole: “Adesso verrai con noi in caserma dove ti riscalderemo per bene a suon di nerbate, così capirai che nella sala d’aspetto possono stare coloro che sono provvisti di un biglietto valido del treno”. Non so se i due ‘superiori’ mantennero la promessa o lo avessero detto per uno stupido esibizionismo di spavalda autorità, ma considerando i loro modi gentili, sarei propenso a riconoscergli anche questi meriti. Dopo che se n’erano andati, un po’ disturbato dell’accaduto, riflettevo su quanto l’ignoranza in uniforme possa essere arrogante, insolente e pericolosa.
Spesso questo brutto ricordo, anche a distanza di tanto tempo, mi affiora ancora nitido alla memoria.